Missione Tata

Ezekiel/Beatrice

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    "Ehi principessa, me lo fai vedere il pugno? Eh?"
    In tutta risposta la bambina di nove anni di fronte ad Ezekiel mostrò la mano destra richiusa, appunto, in un piccolo pugno. La cosa scatenò l'immediata risata del ragazzo, che dopo aver arruffato i capelli castani della piccola interlocutrice si rialzò dalla posizione accucciata che aveva assunto, parandosi di fronte alla madre della bimba.
    "Insomma: come procede l'addestramento di Lena? Credi che avrà problemi quando riceverà il suo primo marchio? Ho così tanta paura che il sangue di fata di mio nonno possa in qualche modo interferire con la sua istruzione."
    Non serviva un grande osservatore per capire che la donna era seriamente preoccupata, probabilmente fin troppo, quasi al limite della paranoia. Ezekiel non conosceva bene la loro famiglia, dunque era quasi certo che non appartenessero a quella sorta di aristocrazia dei Nephilim in cui invece lui era cresciuto. Tuttavia il giovane Herondale aveva realmente vissuto con i suoi genitori solo nella prima infanzia, nella loro casa a Idris, la terra che aveva visto i suoi natali e la prima parte della sua istruzione. Non aveva nemmeno dieci anni quando venne mandato prima in Germania e poi in America, precisamente a New York, dove aveva continuato a vivere fino a quel momento. Lì aveva trovato un gruppo di Shadowhunters che pur non essendo legati a lui dal sangue costituivano la sua famiglia più di quanto lo era mai stata quella vera. Aveva degli amici che per lui erano come fratelli, persone che riuscivano a migliorare o distruggere le sue giornate con una sola parola, gente che lo apprezzava e gente che lo rispettava. L'istituto di New York era ormai il suo mondo e l'istruzione delle nuove leve il suo compito. Ezekiel era fondamentalmente uno stacanovista malato di lavoro: mattina e pomeriggio impegnava tutto se stesso nel fare da maestro a quei ragazzini e la notte usciva in missione con i suoi compagni. Inutile dirlo: nonostante la giovane età era di certo uno dei più esperti là dentro.
    Guardò la donna con un misto di comprensione ed invidia: i suoi genitori erano sempre stati così pressanti, così pieni di aspettative che non avevano mai preso in considerazione la possibilità di doversi preoccupare per qualche problema nella sua istruzione. Certo, alla fine non ce ne era stato comunque bisogno, ma ad Ezekiel aveva sempre messo amarezza pensare che uscire anche solo un po' dal sentiero che la famiglia aveva tracciato per lui non era un'opzione nemmeno lontanamente contemplabile. Sorrise dunque alla madre della bambina, mettendole una mano sulla spalla.
    "Caroline, se c'è una cosa di cui sono sicuro al cento percento è che il sangue di Nephilim è più forte di qualsiasi altro: Lena è una dei nostri e sta reagendo benissimo all'addestramento. Non credo che ci saranno problemi con i marchi, ma anche se ce ne fossero non sarebbe per via di un qualche antenato Nascosto. Fidati: va alla grande e diventerà una bravissima Shadowhunter."
    La donna annuì, distendendo visibilmente i tratti del suo viso e sollevando le labbra in un sorriso finalmente privo di preoccupazione.
    "Grazie Ez, non so veramente come fai a farti voler bene da questi ragazzini: Lena parla sempre di te, sei il suo punto di riferimento. E poi..beh..dopo la scomparsa del padre ha veramente bisogno di una figura come te."
    "Figurati, è il mio dovere! E poi lei è la mia fidanzata, vero Lena?" disse con un sorriso, guardando la bambina diventare improvvisamente rossa in viso e annuire timidamente, nascondendosi dietro le gambe della madre.
    "Mi dicono che ti piacciono più giovani!" la donna si sciolse in una breve risata, per poi cambiare immediatamente espressione, battendosi una mano sulla fronte come se si fosse appena ricordata di qualcosa di veramente importante.
    "Oh, quasi dimenticavo: Lightwood ti vuole nel tuo ufficio il prima possibile. Dice che il Consiglio ha chiesto esplicitamente di te per una questione abbastanza delicata." e se il Consiglio chiama..beh..si risponde senza fare tante domande.

    "Caroline mi ha detto che mi stavi cercando."
    Ezekiel entrò cautamente nel grande ufficio del signor Lightwood, l'uomo a capo dell'Istituto di New York. Il maggiore degli Herondale non aveva mai avuto molte occasioni per intrattenere con lui un discorso di natura personale, ma piuttosto il loro rapporto era sempre rimasto circoscritto al mero ambito lavorativo. Tuttavia era ormai da tempo che Ezekiel non dava più del lei agli altri Shadowhunters dell'Istituto; una volta compiuti diciotto anni era ufficialmente entrato a far parte del Clave e ciò lo aveva reso a tutti gli effetti un loro pari. Le formalità se le risparmiava solo per quei superiori che non vorresti offendere in alcun modo.
    "Sì, cercavo proprio te. Ricordi per caso Beatrice Morgenstern? E' stata tua allieva durante il tuo primo incarico."
    Non ci volle un grande sforzo di memoria per richiamare alla mente la ragazza: innanzitutto ricordava quasi tutti i suoi allievi, ma lei in particolare poiché era la parabatai di suo fratello. In realtà dopo averla addestrata per quel breve tempo in cui era rimasta a New York, non aveva più avuto sue notizie ne' l'aveva più vista di persona. Insomma: se la ricordava undicenne, ma ora doveva essere di certo cambiata. Tuttavia il nome di Beatrice Morgenstern non era scomparso dalle mura dell'Istituto e aveva continuato a sopravvivere attraverso i racconti di Elijah, racconti che spesso e volentieri Ezekiel faceva solo finta di ascoltare. In sintesi tutto ciò che lui sapeva sulla ragazza riguardava il legame che aveva con suo fratello minore, nient'altro.
    "Sì, certo: mio fratello è suo parabatai."
    "Già. Infatti avrei convocato proprio tuo fratello se non fosse stato proprio per il loro legame. Non so se sei al corrente degli ultimi avvenimenti riguardo la sua famiglia: i suoi genitori sono stati portati ad Alicante per rispondere ad alcune accuse che ora non starò qui a spiegare. Dunque Beatrice e suo fratello più piccoli sono rimasti soli ed è compito dell'Istituto accoglierli e affidarli ad una famiglia di riferimento, essendo entrambi minorenni. Il Consiglio ha suggerito che venissero affidati proprio a voi Herondale in virtù del legame tra Beatrice e tuo fratello. Tuttavia non voglio che Elijah venga coinvolto in questioni che non lo riguardano, dunque essendo tu il punto di riferimento della tua famiglia qui a New York, vorrei che te ne occupassi. Il Consiglio ha richiesto che tu sia momentaneamente il tutore ufficiale di quei ragazzi."
    Ovviamente nulla in quel discorso era posto a mo' di richiesta, non c'era alcun per favore e nessun punto di domanda finale. Tuttavia la cosa non stupì Ezekiel come non avrebbe stupito nessun altro Nephilim: il Consiglio non era solito chiedere cortesemente favori e domandare se per caso la gente fosse disponibile ad adempire tali richieste, il Consiglio ordinava e basta e solitamente conveniva obbedire se non si desiderava mettersi in cattiva luce.
    "Certo, sarà fatto."
    "Bene. Ho già mandato mia moglie a prendere il più piccolo, voglio che invece tu vada a prendere Beatrice da scuola: d'altronde è stata tua alunna e suppongo che preferirebbe ricevere una tale notizia da qualcuno di cui si fida."
    "La aspetto all'uscita di scuola?"
    "No. Devi ritirarla immediatamente. E fai in modo di alleggerire il più possibile la sua giornata."

    Probabilmente Ezekiel si sopravvalutava fin troppo nel considerarsi un esperto in camuffamento, al punto da considerare assolutamente legittimo presentarsi in una scuola di mondani vestito come il frontman di un gruppo punk rock. Indossava ancora la sua tenuta da Shadowhunter: pantaloni neri strappati (e non per moda, ma per via di uno scontro con un demone piuttosto aggressivo), t shirt nera che sembrava aver visto tempi migliori, stivali di cuoi neri e una giacca di pelle dello stesso identico colore di tutti gli altri capi. Fortunatamente aveva deciso di nascondere almeno le lame angeliche, ma di certo le rune tatuate che fuoriuscivano da ogni centimetro di pelle scoperta non lo aiutavano a passare inosservato. D'altronde per lui quella era la norma e credeva che la maggior parte degli sguardi attirati stessero ammirando la sua moto nera lucente.
    Erano circa le una del pomeriggio quando Ezekiel attraversò il corridoio della scuola mondana tenendo saldamente sottobraccio il casco nero (che colore insolito!!). Con aria del tutto naturale si appoggiò al bancone della segreteria, tamburellando le dita sul compensato in attesa che qualcuno si facesse vivo. Non ci volle molto prima che una signora bassa e tarchiata con i capelli rossi e una permanente scombinata gli si parasse davanti con aria scocciata, inforcandosi gli occhiali dal bordo viola sul naso a patata. La donna lo squadrò da capo a fondo in un secondo netto, senza preoccuparsi di mascherare il disgusto che affiorò sul suo viso.
    "Come posso aiutarti, giovanotto?"
    "Sto cercando Beatrice Morgenstern. Dovrei farle un permesso di uscita anticipata." disse quelle parole come se stesse recitando le battute di un copione che aveva imparato a memoria e in parte era realmente così, infatti il signor Lightwood gli aveva dato precise istruzioni su cosa dire e cosa fare.
    "Per farlo bisogna essere genitori o tutori dello studente." il tono di voce della donna era piuttosto sarcastico e sottolineò ogni parola come se stesse parlando con qualcuno dai seri handicap mentali. Tuttavia Ezekiel non si fece scomporre ed estrasse dalla tasca del giubbotto un documento piegato in quattro, aprendolo e sbattendolo sul bancone con aria di sfida. A quel punto la donna prese in mano il foglio, leggendolo attentamente per poi alzare lo sguardo dubbioso sul viso del ragazzo e riportarlo di nuovo sul documento, ripetendo questo gesto un paio di volte. A quel punto, dopo aver eloquentemente alzato un sopracciglio, sollevò il foglio verso la luce che proveniva dalla finestra alle sue spalle, osservandolo da ogni angolazione come se stesse valutando se fosse un falso. Evidentemente reputò che il documento fosse affidabile, o comunque pensò di non avere a disposizione altri mezzi per affermare il contrario, perché con uno schiocco della lingua porse di nuovo il foglio a Ezekiel e gliene diede un altro. Questo era più piccolo, di un colore verde acido a dir poco accecante. Calò il silenzio, un silenzio che il giovane Herondale ruppe solo dopo qualche secondo, alzando entrambe le sopracciglia e fissando la donna con fare impaziente.
    "La penna."
    Fu un miracolo se non gliela lanciò in testa; infatti la segretaria sbatté il piccolo oggetto colmo di inchiostro sul bancone con una violenza totalmente non necessaria.
    "Graaazie."
    "E comunque gli studenti sono a pranzo, quindi dovrai andare a cercarla in mensa. Sempre dritto e poi a destra."
    Ezekiel annuì mentre compilava il piccolo foglio verdognolo, per poi restituire la penna alla segretaria una volta finito. A quel punto salutò la donna con un cenno del capo e si avviò nella direzione che gli era stata indicata.
    Non ci volle molto prima che il vero problema affiorasse nella mente del ragazzo: lui si ricordava della Beatrice undicenne, ma non aveva la più pallida idea di come fosse diventata ora. La ricordava castana, ma sul colore dei capelli non si può fare più di tanto affidamento al giorno d'oggi: la maggior parte delle ragazze dai quindici ai trent'anni si tingono bionde se sono more e more se sono bionde. Ma la problematica si fece ancora più acuta quando, entrato nella mensa, si rese conto di quanti fossero gli studenti lì dentro. Nessuna scuola di Shadowhunters era così tanto caotica, ed Ezekiel considerava già fin troppo affollata quella di Alicante. Per questo il suo sguardo perlustratore non servì a nulla se non a metterlo maggiormente al centro dell'attenzione. Chiunque gli passasse accanto lo squadrava come se fosse appena uscito da una festa in maschera e non erano in pochi quelli a fissarlo con una sorta di timore bisbigliando all'orecchio del compagno più vicino. Ezekiel, dal canto suo, se ne curava poco e continuava ad aggirarsi tra i banchi della mensa con l'aria di qualcuno a cui è stato rubato qualcosa. Alla fine perse le speranze e, ormai impaziente, si avvicinò a un tavolo di ragazze dall'aspetto fin troppo curato.
    "Ehi, non è che conoscete Beatrice Morgenstern?"
    La reazione generale del gruppetto fu di assoluta incredulità (qualcosa per cui di certo Ezekiel non si era preparato). Le ragazze lo guardavano come se avesse appena chiesto loro le indicazioni per il negozio più vicino di astronavi spaziali. Solo una, dopo un lungo minuto di imbarazzo, si riscosse dalla sorpresa e gli indicò un tavolo poco distante, dove sedevano un gruppetto misto di tre o quattro persone.
    "E' quella con i capelli castani." dunque non si era tinta nel frattempo: che sollievo!
    Ringraziò con un sorriso e si diresse in gran carriera verso il tavolo, dove poggiò con fare teatrale il casco che aveva sottobraccio, sventolando invece il permesso di uscita anticipata davanti alla faccia ignara di Beatrice.
    "Mi piacerebbe un sacco restare qui a conoscere tutti i tuoi simpaticissimi amici, ma dobbiamo andare."
     
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    La casa di sua zia alloggia nel più totale silenzio. Un venticello leggero oltrepassa la porta finestra, scompigliando appena i capelli di Lewis che dorme tra le sue braccia. Lei, Tris sta studiando, ma non riesce a fare a meno di deconcentrarsi non appena Elijah le scrive un nuovo messaggio. Sta cercando di tirarla su di morale. Non è fatto bello ciò che le sta accadendo. Sentirsi continuamente il fiato di uno sconosciuto sul collo è a dir poco fastidioso per non dire odioso, soprattutto di fronte a una personalità così diffidente come può essere quella di Beatrice. Gli Shadowhunters avevano continuato ad andare e venire da casa di sua zia ponendole domande scomode. Dove era stata, cosa aveva fatto per tutto quel tempo lontana da New York, con chi era rimasta in contatto. Non le avevano invece spiegato nulla; i suoi quesiti erano rimasti appesi a un filo. Erano sempre diversi, le donne e gli uomini che le facevano visita. Le avevano portato in casa persino uno stregone che si era curato di leggere la sua mente e quella di suo fratello. Opporsi era stato inutile. Qualunque cosa non andasse per il verso giusto, doveva essere davvero grave, altrimenti il Consiglio non avrebbe di certo mobilitato così tante persone. Quella sera sua zia era tornata a casa tardi. L'avevano portata a Idris per interrogarla. Da quando era tornata non aveva fatto parola riguardo a ciò che le era successo nella città di vetro. Continuava a fissare Tris insistentemente, come se cercasse qualcosa che non andasse bene in lei. La piccola Morgenstern dal canto suo, provava con tutte le sue forze di ignorare quella strana sensazione di essere continuamente osservata, che si intensificava sempre di più. Finito il capitolo di chimica, chiuse il libro e lo posò sul tavolino di fronte al divano. Iniziò quindi ad accarezzare i capelli chiari di Lewis, fissando a sua volta sua zia. « Com'è andata oggi? » Le chiese improvvisamente la donna. Aveva una voce dolce, pacata, il contrario dello sguardo che si ostinava a rivolgerle ogniqualvolta Tris cambiasse posizione anche di poco. Era come se cercasse di comprendere qualcosa invisibile all'occhio libero, come se si aspettasse che la ragazza scattasse da un momento all'altro sotto il suo sguardo. « Bene. Io ed Elijah abbiamo portato Lewis al parco e poi siamo andati a prendere una pizza. Dovevi vederlo! Era così felice! » Sua zia storse leggermente il naso. Elijah non le piaceva, e sopportava a malapena la presenza di Lewis in casa propria. Il primo era per la donna uno Shadowhunter, quindi di natura un individuo di cui non ci si poteva fidare. Il secondo invece, era simbolo del tradimento di Valerius nei confronti di sua sorella. Di fronte a così tanto rancore, Tris non poteva fare a meno di provare una leggera amarezza, chiedendosi in cuor suo se sua madre le assomigliava. « Come sta mio padre, zia? » Chiese infine la ragazza, non riuscendo più a tenersi dentro i dubbi e il tormento. Aveva bisogno di risposte, risposte che nessuno sembrava essere pronto a darle, come se lei non potesse capire. Continuavano a trattarla come una bambina, a scaraventarla di qua e di là come fosse una bambola di pezza. Era stanca di dover ignorare tutto ciò, stanca di spostarsi di continuo, stanca di tenersi le domande per sé. Qualunque cosa Valerius avesse fatto per tenerla per così tanto tempo lontana da lui, per omettere così tante verità, lasciandosi imprigionare e lasciandosi portare via i suoi figli, Tris doveva saperlo. Aveva bisogno di mettersi l'anima in pace, anche perché a breve, volente o nolente, non appena avrebbe compiuto diciotto anni, avrebbe preso in mano le redini della famiglia, badando a Lewis, alla casa e a tutti gli affari di famiglia. « Non mi hanno dato il permesso di vederlo, tanto meno di parlargli. » Beatrice scosse la testa e con cura, spostò il corpicino di Lewis sul divano, alzandosi in piedi. A passi macchinosi si diresse verso la porta finestra per osservare le luci di Brooklyn in lontananza. « Credo stiano cercando di tagliare qualunque ponte tra voi e loro. Non so perché. » Fu allora, mentre osservava assorta le luci della città che si accorse delle due paia di occhi che scrutavano la casa dall'interno di una berlina parcheggiata sull'orlo della strada. Continuavano a seguirla, continuavano a starle alle calcagna, ma quale fosse la ragione, per Tris rimaneva ancora un mistero. Se il problema era Valerius Morgenstern, perché i Nephilim continuavano a sorvegliare lei e Lewis? Evidentemente al Consiglio, l'idea che il padre li avesse allontanati dall'Istituto e da Idris, non era assolutamente piaciuta. Si aspettava perciò un nuovo flusso continuo di Shadowhunters che prima o poi li avrebbero restituiti alla causa dell'Angelo. A dirla tutta, Tris non vedeva l'ora. Le mancava l'Istituto, le mancava Elijah. Odiava la scuola - non era affatto il posto adatto per lei, odiava sentirsi così inutile e impotente, odiava tuttavia ancora di più l'idea di mettersi al servizio di coloro che stavano lentamente frantumando quei brandelli ancora intatti della sua famiglia.

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    « Ma quindi con chi andrai al ballo di fine anno? » Quello era il tavolo delle nullità. Bisogna sempre ricordare che gli studenti, in una qualunque scuola sono divisi ai tavoli della mensa per gruppi di appartenenza sociale. Tris apparteneva alle nullità, agli sfaticati, a tutte quelle persone mediocre che di per sé non poteva essere considerate né cheerleader o giocatori di football, né secchioni, né artisti, né incompresi o depressi. Peggio dell'avere addosso un'etichetta per ben quattro anni - che avesse essa connotati positivi o negativi - era non averne nessuna. Tris di ciò ne era convinta; per quanto gli secchioni vi diranno di essere i più bullizzati della scuola, i più sfigati, i più assoggettati, i più presi di mira, un po' da tutte le classi sociali scolastiche sono appunto loro. Al Rosemery High School, gli emargianti/individui invisibili sono ben pochi e si suddividono un po' in vari tavoli dove capita. Tris ci era finita il primo giorno di scuola per caso, dopo aver rifiutato l'invito di una delle cheerleader di sedersi accanto a loro. Da allora la sua vita da liceale si era suddivisa tra lunghe ore di studio per i corsi avanzati che seguiva e il continuo quanto incessante attacco di bullismo gratuito di un po' tutte le categorie sociali che contano. « Non credo che ci andrò. » Rispose la ragazza in tono sommerso a Peter seduto accanto a lei, chino a sua volta sul proprio libro di chimica. Si preparavano per quel compito in classe da un paio di settimane. Era il più importante di tutto il semestre e se fosse andato male, sarebbero tornati nella classe di chimica elementare. « ...ma se dovessi andare, ovviamente andrei con te. » Si affrettò a correggersi Tris prima di tornare a chinarsi sul suo libro di chimica. Peter le stava davvero stretto, nonostante il loro rapporto fosse unicamente un modo per dire non voglio impegnarmi con nessuno - almeno da parte della ragazza - ultimamente il giovane era diventato più audace del solito e continuava a pretendere sempre di più dalla Morgenstern, come se fossero una coppia di fatto. Sentendosi rassicurato, Peter annuì quindi infine, stampandole un bacio sulla guancia, affrettandosi a ritirare le labbra dalla sua pelle prima che fosse stata a lei a scostarsi, ferendolo nell'orgoglio. Continuò quindi ad annotare a matita su un quaderno formule di chimica organica, cercando di memorizzarle più in fretta che potesse. Ben presto tuttavia si perse nei suoi pensieri, iniziando a scarabocchiare linee senza senso sul foglio immacolato. Si perse nelle sue memorie, continuando a chiedersi cosa avesse fatto la zia nella città di vetro pochi giorni fa. Qualunque cosa le avessero detto, la donna aveva cambiato completamente atteggiamento nei suoi confronti e soprattutto nei confronti di Lewis sul quale sembrava scaricare le colpe di ogni cosa. Più di una volta Tris si era sentita in dovere di intromettersi, continuando a ripetere alla zia che non aveva alcun diritto di trattare in modo così brusco un bambino. Ma la donna non voleva sentir ragione; litigavano e a volte la minacciava persino di buttarla fuori di casa, obbligando Tris a scappare nella sua stanza in lacrime, dove affogava i dispiaceri e la rabbia contro il cuscino, cercando di rimanere più silenziosa possibile. Non aveva più nessuno di cui fidarsi, nessuno che potesse darle una mano. Elijah era troppo giovane per assumersi le responsabilità per lei, e nonostante si fosse offerto ad aiutarla, Tris sapeva che in quanto ancora agli inizi del suo percorso, aveva sin troppo da fare. Così si era ritrovata a sopportare in silenzio, ancora e ancora.
    Trasalì solo quando il pesante casco poggiò sul tavolo della mensa. Tris, Peter e i loro amici alzarono contemporaneamente le teste dai propri libri, dirigendo le proprie attenzioni verso lo sconosciuto che aveva appena turbato il loro studio. Peter poggiò istintivamente la mano sulla mano di Tris, mentre lo sconosciuto si rivolgeva direttamente a lei. "Mi piacerebbe un sacco restare qui a conoscere tutti i tuoi simpaticissimi amici, ma dobbiamo andare." Beatrice rimase allungo impallata sulla sedia, con Peter che le stringeva ancora la mano quasi avesse paura di vederla scomparire da un momento all'altro. Non c'era molto da discutere al riguardo; sapeva bene chi aveva mandato lo sconosciuto, i tatuaggi sul collo e sulle braccia bastavano da prova. Un leggero fastidio pervase tutto il suo corpo; qualcosa non andava sicuramente per il verso giusto se si presentavano addirittura a scuola. Si scostò da Peter, prese il suo giacchetto, il libro e la tracolla e senza dare alcuna spiegazione ai suoi amici si alzò dal tavolo diligentemente pronta a uscire dalla mensa. Sentiva di soffocare. Non riusciva ad accettare quella situazione, ma sapeva di non avere scampo. Se avesse opposto resistenza, l'avrebbe trascinata fuori con la forza. Conosceva sin troppo bene i modi dei Nephilim, soprattutto di quelli che le erano stati mandati nelle ultime settimane. « Tris, dove vai? C'è l'esame di chimica! » Disse Peter alzandosi addirittura in piedi pronto a seguirla. Ma Tris non si girò, né per rispondere al ragazzo, né per verificare se lo sconosciuto la stava seguendo. Percorse a grandi passi rabbiosi i corridoi fino al suo armadietto. Sentiva la presenza di lui alle spalle. Era lì, a debita distanza, ne era certa. Aperto il suo armadietto, ripose i libri e i quaderno e tirò fuori una piccola borsetta dalla quale estrasse lo stilo di sua madre e un malloppo di soldi che suo padre le aveva chiesto di nascondere nel posto più evidente. Si preparava per quel momento da tempo ormai; persino sua zia l'aveva avvertita: prima o poi sarebbero venuti a prenderla per riportarla a casa, qualunque cosa casa significasse. Infilò il tutto nella tracolla, e infine si girò verso il ragazzo. Il corridoio deserto le permetteva di esprimere finalmente tutta la sua frustrazione. Avrebbe voluto sbraitargli contro, prenderlo a calci e a pugni, se non fosse che qualcosa nel suo aspetto le ricordava qualcosa di vagamente famigliare, come se in una vita passata si fossero già incontrati. « Stanno per rinchiudere anche me vero? Vi prego non fate del male a Lewis... è solo un bambino non ha fatto niente. » Disse infine stringendosi nelle spalle, passandosi una mano tra i capelli, non sapendo né cosa dire, né cosa fare. Scappare sarebbe stata la cosa più saggia; scappare, prendere Lewis a casa e scomparire. E lo avrebbe fatto se in quel momento il telefono non avesse iniziato a squillare nella tasca anteriore della tracolla. Lo prese sbrigativamente e osservò la foto sullo schermo. Elijah; una foto scattata durante le vacanze dell'anno scorso, che il migliore amico le aveva mandato per dimostrarle che anche lui e i suoi fratelli sapevano divertirsi a Idris. Solo allora lo vide sullo sfondo. Era lui. Il fratello di Elijah; tempo addietro era stato uno dei suoi istruttori. Solo allora la ragazza si permise di osservarlo finalmente con attenzione. Lasciò squillare il telefono allungo, ignorandolo di proposito. Intenta a ricordare quei lieti anni all'Istituto culminati nel peggiore dei modi, Tris non poté fare a meno di rimanere leggermente impallata di fronte a lui. Un tempo Ezekiel proteggeva i suoi studenti, li incoraggiava e li spingeva a dare il meglio di loro stesso. E ora? L'avrebbe consegnata ai Nephilim nonostante non avesse fatto nulla di male? « Io mi ricordo di te. All'istituto. Sei... sei il fratello di Elijah. » Decisamente perspicace!
     
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    Dopo la rottura con Emilie, per Ezekiel era stato sempre più difficile aprirsi con le persone e condividere i lati più profondi di se stesso. Una parte di lui era probabilmente convinta che non sarebbe mai riuscita a stabilire un rapporto simile con qualcun altro, ma forse nemmeno lui, in fondo, voleva che ciò succedesse. In fondo la fine di quella storia era stata provocata dalla sua immaturità, e questo ormai lo aveva capito, ma capirlo non era abbastanza: doveva accettarlo e ammetterlo ad alta voce. Non bastava scrollare le spalle ogni volta che quell'episodio affiorava nei discorsi, non bastava dire che era stato meglio così, che non era destino per poi trincerarsi in se stesso e rifiutarsi anche solo di provare ad aprirsi di nuovo con qualcun altro. Certo: aveva sempre il suo parabatai, ma dopo quell'esperienza anche con lui era diventato più difficile confidarsi, tanto che spesso ci metteva del tempo prima di decidersi a parlare con lui di qualcosa di realmente profondo. Credeva che il rispetto fosse un qualcosa che poteva essere guadagnato tenendo le distanze, dimostrando quanto valesse in virtù di Shadowhunter, ma senza mai azzardarsi a far vedere qualcosa di se stesso che andasse oltre quelle grandi capacità che ormai tutti conoscevano. Ovviamente aveva degli amici e aveva anche avuto altre storielle, ma nessuna delle due cose era mai andata seriamente in porto, portandolo ad avere una fittissima rete di conoscenti e nessun legame che valesse la pena di chiamare come tale. Forse la verità era che, nonostante volesse dare a vedere tutto il contrario, si stava ancora leccando le ferite di cui aveva risentito il suo orgoglio. Ormai sapeva benissimo che quella con Emilie era una storia chiusa e, in tutta sincerità, aveva anche passato la fase in cui avrebbe disperatamente voluto tornare indietro per fare le cose diversamente. Ora tutto ciò a cui riusciva a pensare, tutto ciò che ai suoi occhi assumeva una reale importanza era il lavoro, i suoi doveri da Shadowhunter e nient'altro. Le relazioni erano sopravvalutate secondo la sua opinione, siccome quelle di cui aveva realmente bisogno le aveva già: la famiglia e il legame con il suo parabatai. Una ragazza, in quel momento, sarebbe solo stata una complicazione di cui non avrebbe avuto voglia o tempo di occuparsi.
    Eppure, sebbene il suo atteggiamento stoico lo facesse apparire a tutti gli effetti come un adulto, ancora nei suoi piccoli comportamenti si poteva percepire una certa ambiguità, una sorta di ambivalenza: come se avesse un piede fermamente piantato nel mondo degli adulti e l'altro assolutamente restio a lasciare quello degli adolescenti. Ancora gli piaceva andare alle feste, conquistare una ragazza diversa ogni sera, bere e fare tutte le stronzate che fa qualsiasi altro ragazzo. Ancora gli piaceva passare le nottate intere sveglio a giocare a poker con gli amici, oppure a organizzare gloriosi tornei di birra pong. Tutte cose che un vero e proprio adulto dovrebbe aver abbandonato ormai da tempo. Per questo la maggior parte della gente tendeva a valutarlo inserendolo in una categoria o nell'altra, senza tuttavia far conto di quel suo singolare modo di perseverare in mezzo a due età completamente differenti. Gli amici lo vedevano ancora come quel ragazzo che, ubriaco marcio e di ritorno da una festa di stregoni, si era addormentato su un marciapiede abbracciato a un bidone della spazzatura. I suoi superiori, invece, lo vedevano come un lavoratore serio e degno di rispetto. Nessuno aveva ragione fino in fondo: Ezekiel era entrambe le cose.
    Ora, lì in quei lunghi corridoi della scuola mondana, il suo modo di vivere appariva più che mai evidente: era chiaro che fosse troppo cresciuto per amalgamarsi con successo a quei ragazzi, eppure non dava l'impressione di qualcuno buttato in un'ambiente a lui estraneo. Sembrava più la vecchia rockstar del liceo, quella che ai suoi tempi aveva tutte le ragazze al seguito ed era considerata l'anima di ogni festa, quel classico tipo popolare che torna a visitare la sua scuola solo per respirare ancora una volta quell'aria di gloria di cui aveva goduto quando ne faceva parte. Per lui era tutto un gioco, un gran bel gioco in cui ormai aveva capito la strategia giusta per vincere, per non essere mai battuto. Quel suo tenere tutto per se stesso, quel rifiuto a far vedere anche solo un piccolo spiraglio delle sue debolezze, tutto questo lo rendeva ancora più spavaldo, capace di sentirsi a suo agio in qualsiasi ambiente e al cospetto di chiunque. E' inutile dunque chiedersi come mai Ezekiel ispirasse così tanta sicurezza agli occhi di bambini e adolescenti: per quanto il suo atteggiamento potesse essere sbagliato in altri frangenti, nel fungere da esempio in forza di carattere non aveva eguali, era un punto fermo.
    "Stanno per rinchiudere anche me vero? Vi prego non fate del male a Lewis... è solo un bambino non ha fatto niente."
    Di rimando alzò gli occhi al cielo con fare esasperato, senza nemmeno preoccuparsi di non farsi notare. Odiava il vittimismo e di certo odiava ancora di più il tono lamentoso con cui Beatrice aveva pronunciato quelle parole. Ezekiel era fermamente convinto che essere uno Shadowhunter significasse affrontare le situazioni a testa alta, reagire persino con la forza se necessario. Santo cielo: lui avrebbe spaccato la faccia a chiunque avesse osato prelevarlo con metodi duri per portarlo chissà dove. E di certo non avrebbe chiesto pietà per la sua famiglia, ma avrebbe fatto in modo di proteggere ciascuno di loro a fatti, non a parole.
    "Fidati: se avessi voluto rinchiuderti da qualche parte non avrei perso tempo con la segretaria mestruata a compilare un permesso di uscita anticipata."
    Dicendolo si appoggiò con una spalla all'armadietto accanto a quello che la ragazza aveva aperto per radunare le sue cose. Osservandolo non poté fare a meno di aggrottare la fronte: non aveva mai capito perché i mondani avessero bisogno di così tanti libri e quadri nel loro percorso di istruzione. Ezekiel aveva sempre creduto fermamente che l'esperienza fosse la migliore delle insegnanti e che per capire veramente qualcosa bisognasse toccarla con mano, non imparare a memoria quattro righe che poi ci si sarebbe sicuramente dimenticati. Ma d'altronde il nostro Herondale non teneva conto di quanto fossero diverse le materie scolastiche mondane rispetto a quelle dei Nephilim.
    Si riscosse dai suoi pensieri solo sentendo squillare il cellulare di Beatrice, che ne guardò lo schermo come se avesse ricevuto l'illuminazione spirituale, per poi ignorare comunque la chiamata - di chiunque essa fosse stata.
    "Io mi ricordo di te. All'istituto. Sei... sei il fratello di Elijah."
    Ezekiel annuì con l'aria di chi la sapeva lunga, come se la ragazza avesse appena indovinato la risposta corretta alla domanda decisiva in un quiz a premi.
    "L'unico e il solo. Cioè..abbiamo anche una sorella, ma ogni tanto faccio finta di non conoscerla quando andiamo alle feste: sai, ha gusti un po' appariscenti in fatto di vestiti. Eli è il tuo parabatai, vero?"
    Ovviamente il nostro Herondale sapeva già la risposta a quella domanda, ma l’aveva avanzata comunque perché sapeva benissimo che se avesse instaurato un dialogo con la ragazza ci sarebbero state meno possibilità di doverla rincorrere per tutta New York dopo averle dato la notizia per cui era venuto a prenderla da scuola. D’altronde quel compito non era poi molto diverso dal suo vero lavoro: doveva pur sempre stabilire un contatto con Beatrice e diventare ai suoi occhi un punto di riferimento almeno momentaneo.
    A quel punto le indicò la porta con un cenno del capo e la intimò a procedere prima di lui con un gesto elegante della mano. In realtà nelle sue intenzioni c’era ben poca galanteria: preferiva che la ragazza camminasse di fronte a lui per non perderla d’occhio. Non voleva che scappasse all’improvviso per paura di chissà cosa. Solo una volta oltrepassata la soglia dell’uscita si affiancò a lei e la condusse verso la moto nera lucente.
    “Questo servirà più a te che a me.” disse con un sorriso posandole il casco in testa, per poi regolarne la lunghezza della chiusa e allacciarlo sotto al suo mento come se fosse una bambina incapace di farlo da sola.
    “Tieniti forte.”

    Solitamente avrebbe frenato in modo tanto teatrale quanto appariscente, ma l’istinto gli diceva che se quella non era la prima volta di Beatrice su una moto, di certo non doveva comunque essere abituata a viaggiare su quel tipo di mezzo di trasporto. Per questo optò per una frenata più morbida, per poi smontare per primo e agganciare la moto a un palo della luce tramite una grossa catena di ferro: si sa che a New York sarebbero capaci anche di rubarti i calzini senza toglierti le scarpe.
    Alla loro destra, oltre il marciapiede, vi era il grosso cancello di central park, il parco più grande e famoso della città. Quel luogo era l’ideale per fare una passeggiata, tanto che la maggior parte dei frequentatori erano coppiette o genitori che portavano i loro bambini a giocare su scivoli e altalene. Quella davanti alla quale si erano fermati era solo una delle tante entrate, nonché la più vicina al chioschetto dei gelati: un luogo in cui era andato spesso quando stava insieme ad Emilie. Inutile dirlo: la malinconia lo assalì alla sola vista di quel posto, ma la ricacciò violentemente dentro di sé, conducendo Beatrice oltre il cancello, fin verso il lungo bancone dei gelati.
    “Che cosa desiderate, ragazzi?” chiese con un largo sorriso l’omone in carne dall’altra parte del banco.
    “Per me nulla. Tu invece..” disse rivolgendosi a Beatrice “scegli quello che vuoi. Pago io.”
    Aspettò che la ragazza facesse l’ordinazione per pagare e poi condurla lentamente verso una delle panchine più vicine. Ne scelse una all’ombra di una grande quercia, piuttosto isolata rispetto alle altre già occupate; d’altronde la discussione che si accingeva a cominciare non era esattamente del tipo di argomenti che avrebbe voluto far sentire ad un mondano.
    “Senti: oggi sono venuto a prenderti a scuola perché come ben saprai tuo padre è stato mandato ad Alicante e il Consiglio ha reputato necessario convocare anche tua zia. Ora, siccome sia tu che tuo fratello siete minorenni, dovete essere per legge accolti dall’Istituto e affidati a una famiglia. Ecco: siete stati affidati a noi Herondale, ma visto che i nostri genitori vivono ufficialmente ad Alicante e dunque non potrebbero occuparsi di voi, sarò io, per il momento, il vostro tutore. Quindi per qualsiasi cosa ti dovrai rivolgere a me, capito?”
    Cercò di darle la notizia nel più dolce dei modi, senza risultare brusco o dare l’aria di non prendere sul serio il proprio compito. D’altronde non era esattamente una cosa che chiunque avrebbe voluto mai sentirsi dire, ma come minimo doveva cercare di renderle la cosa il più facile possibile.
    “In sostanza sì, se ti va puoi anche chiamarmi papà.” aggiunse con un sorriso, scontrando dolcemente la spalla contro la sua mentre cercava di trasmetterle un briciolo di sicurezza con lo sguardo. Tutto nel modo gentile in cui piantava gli occhi azzurri in quelli nocciola di lei sembrava dirle che poteva fidarsi di lui, che sarebbe andato tutto bene e non avrebbe avuto nulla di cui preoccuparsi.
    “Ehi, guarda che nonostante le apparenze ti assicuro che so essere molto divertente!”
     
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    "Fidati: se avessi voluto rinchiuderti da qualche parte non avrei perso tempo con la segretaria mestruata a compilare un permesso di uscita anticipata." La parola magica: fidati. Il consiglio per eccellenza da parte degli estranei. Certo, aveva appreso che il ragazzo non era del tutto un estraneo, ma era uno Shadowhunter e per quanto Beatrice avrebbe desiderato fidarsi, poiché un suo simile, continuava a pensare che qualcosa non andasse per il verso giusto. Non poteva smettere di pensare a suo padre rinchiuso in una cella di Alicante, lontano da sua moglie, tormentato dall'idea di non sapere dove si trovassero i suoi figli, cosa stessero facendo, come vivessero la loro vita. Non era un genitore, Beatrice, ma aveva sperimentato l'idea di diventarlo negli ultimi mesi mentre si prendeva cura del suo fratellino. Avere sulla propria coscienza un piccolo esserino indifeso, era qualcosa che segnava a vita. Qualunque cosa avesse fatto suo padre negli ultimi anni, qualunque cosa l'avesse spinto ad allontanarla prima da New York e poi lentamente dal mondo dei Nephilim, una cosa era certa: cercava di tenerla lontana da loro e non di certo per via della pericolosità della vita da cacciatore. Intuiva ci fosse di mezzo qualcosa di ben più grande, e così, negli ultimi anni, mentre bramava di tornare accanto a Elijah, paradossalmente desiderava allontanarsene il più possibile. Doveva evitarli; non sapeva per quale ragione, ma capiva quanto fosse fondamentale. "...Eli è il tuo parabatai, vero?" Tornò in sè solo quando il ragazzo le porse quella semplice domanda. Annuì distrattamente senza proferir parola. Non aveva di certo intenzioni di parlare con uno sconosciuto del legame che la univa a Elijah. Inutile dire che la dolcezza nella sua voce e il modo in cui provava a tutti i costi di fare conversazione, la infastidiva non poco; come se fosse stata questione di vita e di morte cercare di farla parlare di cose che la mettevano a proprio agio. Si sentiva catapultata nel passato, come se stesse conoscendo di nuovo per la prima volta il suo istruttore che dal canto suo faceva di tutto per assumere quei modi gentili e premurosi che tanto piacevano ai bambini e infondeva loro una fiducia quasi immediata, stabilendo un contatto istantaneo. Ma Tris non aveva più dieci anni; nonostante fosse un'ingenua sognatrice, alle prime armi, aveva sviluppato un istinto quasi infallibile, riusciva a leggere le persone, capirle, interpretarne almeno parzialmente le loro intenzioni. E a quel punto le cose erano alquanto chiare. Poteva fidarsi di Ezekiel? Sicuramente sì, se solo avesse potuto limitare le sue paranoie. Voleva fidarsi di Ezekiel? Assolutamente no! Ma a quel punto aveva ben poca scelta. Si lasciò quindi condurre fuori dalla scuola, sussultando appena alla vista della sua moto. Era bella, nera luccicante; per qualche strano motivo si aspettava una cosa simile da parte sua. D'altronde, ora che aveva modo di osservarlo meglio, era un individuo carismatico, con una sicurezza di sé che a Tris poteva solo che far invidia e un certo impeto, il patos del guerriero che aveva sempre identificato come proprio dei migliori Shadowhunters. Probabilmente, semmai avesse disegnato il ritratto del perfetto Shadowhunter, avrebbe delineato una figura simile a lui. “Questo servirà più a te che a me.” Frustrata a dismisura, ormai afflitta da troppi dubbi, si lasciò tuttavia sistemare il casco, sentendosi ridicola fino al midollo. Poi passò una gamba attorno alla moto e aggrovigliò le dita attorno al margine di quel poco di sella libera. Imbarazzata a dismisura guardò ovunque tranne che in direzione del ragazzo e della scuola, dove si erano appostate a braccia incrociate, Janis e il suo gruppo di cheerleader. Voleva sentirsi a suo agio, voleva far credere loro che era tutto normale, ma a dire il vero era sin troppo agitata per potersi anche solo muovere di un millimetro. Era già salita sulla vespa stile anni '50 di Peter, ma al confronto, sembrava insignificante e decisamente molto più sicura rispetto al bestione su cui era appena salita. “Tieniti forte.” Con uno scatto, la moto venne persa di vista dai curiosi spettatori del Rosemery High School e Beatrice dal canto suo dovette sorreggersi per forza al ragazzo, per paura di cadere. Si aggrappò quindi goffamente alla sua maglietta, stringendo il più possibile, attenta a non toccargli i fianchi o avvicinarsi troppo.
    Il Rosemery era piuttosto lontano da Central Park eppure il tragitto le risultò piuttosto corto. Sfrecciarono nel traffico di New York come niente fosse. Beatrice ebbe più di una volta paura di schiantarsi contro qualche macchina, ma dal canto suo, il giovane Herondale sembrava a suo agio in quel continuo zigzagare tra i taxi gialli, le lussuose macchine e i bus appostati alle fermate. Prima che potesse accorgersene, iniziò a provare una pura liberazione; il vento sul viso, l'adrenalina nel circolo, il battito cardiaco accelerato. Certo, tra la casa dei suoi parenti e la scuola, non poteva aspettarsi di provare simili cose. Si era quasi scordata quanto potesse essere gratificante quell'esistenza, tra pericoli costanti e una continua sensazione di spingersi oltre i propri limiti. Gli Shadowhunters non avevano paura di niente. E lei? Tris? Non lo sapeva. A forza di rimanere impassibile, lasciando che la vita le scorresse dinanzi senza reagire, aveva forse dimenticato quanto quell'esistenza le fosse cucita addosso. Ce l'aveva nel sangue; per quanto avesse provato a sfuggire, l'Angelo le si sarebbe ripresentato in molteplici forme, sempre e comunque. Le tremavano le gambe quando scese dalla moto. Con manine incerte, si slegò il casco, lasciandolo scivolare sul braccio, arrenandosi nel seguire Ezekiel all'interno del parco. Era ancora sin troppo sospettosa per godersi a pieni polmoni la bellezza di Central Park. Insomma, un quasi sconosciuto le si presenta a scuola su una moto luccicante e la porta via, per cosa? Un gelato? “Per me nulla. Tu invece.. scegli quello che vuoi. Pago io.” Di fronte al chiosco si trovò piuttosto titubante. Non aveva voglia di niente se non di scoprire per quale ragione Ezekiel si dimostrasse così gentile. Non era poi nell'indole degli Shadowhunters in generale mostrare gentilezza, soprattutto verso la prole di un incriminato per chissà quali atti contro il Consiglio e contro Alicante. Decise tuttavia che era scortese rifiutare. Iniziare qualunque cosa stesse per iniziare col piede sbagliato non le conveniva. Per quanto avrebbe desiderato mostrargli diffidenza, non poteva. Aveva visto l'effetto prodotto da quel suo atteggiamento chiuso e al contempo saccente sugli Shadowhunters; non aveva fatto altro che aumentare sospetti infondati su di lei. Qualunque sua azione fuori, era certa si ritorcesse contro suo padre. Fu così che allungò appena il nasino oltre il bancone guardando la moltitudine di gelati presenti. Sorrise appena alla vista dei ghiaccioli multicolori e ne indicò quindi due alla fragola, al gelataio che con un grande sorriso glieli allungò. Non appena Ezekiel pagò, Tris gliene porse uno dei due con una certa disinvoltura. « Mio fratello dice che non puoi lasciare Central Park senza aver mangiato uno di questi. E' una sorta di tradizione di famiglia. » Cercò di abbozzare un sorriso mentre si incamminavano verso una panchina alquanto appartata. Nel frattempo, Tris provò con tutta se stessa di rilassarsi godendosi il suono cristallino delle risate di tutti quei bambini che correvano sulle viuzze del parco, evitando quasi di proposito di fissare le coppiette appostate su qualche panchina. Non capiva come fosse possibile dare così tanto spettacolo di fronte a tutti. Provava imbarazzo per loro.
    “Senti: oggi sono venuto a prenderti a scuola perché come ben saprai tuo padre è stato mandato ad Alicante e il Consiglio ha reputato necessario convocare anche tua zia. Ora, siccome sia tu che tuo fratello siete minorenni, dovete essere per legge accolti dall’Istituto e affidati a una famiglia. Ecco: siete stati affidati a noi Herondale, ma visto che i nostri genitori vivono ufficialmente ad Alicante e dunque non potrebbero occuparsi di voi, sarò io, per il momento, il vostro tutore. Quindi per qualsiasi cosa ti dovrai rivolgere a me, capito?”

    Era arrabbiata. Quel pomeriggio la prova di resistenza le aveva dimostrato ancora una volta quanto in realtà fosse debole. Non era adatta a quella vita; ogni poro del suo corpo le gridava di andarsene, di scappare e di non farne più ritorno. Come punizione per aver mollato prima del termine della prova, il giovane Herondale l'aveva sgridata e mandata in armeria. Avrebbe catalogato armi per tutto il pomeriggio e anche per tutta la notte se fosse stato necessario. Non ce l'aveva con lui e nemmeno con gli altri che a differenza sua non avevano mollato nonostante la difficoltà della prova. Ora che tutto era finito si sentiva una piccola capricciosa che non sapeva stare alle regole. Continuava a sbattere le armi su questo e quell'altro scaffale, innervosita dal ricordo di quella giornata. Ogni piccolo particolare la esasperava ulteriormente. Se solo avesse avuto lo stesso patos durante la prova a quest'ora, di certo sarebbe stata assieme agli altri nel salone, a godersi una meritatissima cena gratificante. Ma lei aveva mollato; lei non era degna di essere loro amica, non era degna del loro rispetto e della loro fedeltà. Era comprensibile che la giudicassero. Se ciò fosse accaduto durante una vera missione, molte vite sarebbero state sacrificate per la vigliaccheria di un unico elemento. Non poteva permettersi di scappare; nessun Shadowhunter fugge. Ora era lì tra cianfrusaglie di ogni tipo. Divise da combattimento, spade angeliche, dispositivi per neutralizzare i Nascosti e chi ne ha più ne metta. Ancora una volta non si dava da fare come avrebbe dovuto. Stava per rinunciare, quando la rabbia esplose violentemente nel suo petto, nel ricordare le dure parole di Ezekiel. Non se le ricordava nemmeno con precisione, ricordava solo le sfumature cupe del suo viso. L'aveva trattata come avrebbe trattato chiunque, ma per Tris era stato un colpo duro da incassare. Sbatté la spada angelica con talmente tanta forza sul banco di lavoro che quest'ultima si frantumò in mille pezzi di vetro. Non aveva mai visto una spada angelica rompersi con così poco. A dire il vero quelle armi erano quasi indistruttibili. Indietreggiò di colpo guardandosi le mani tremanti, mentre ammassi di melma oscura scendevano giù, lungo le pareti, inspiegabilmente, avvicinandosi minacciosamente a lei. Mentre il battito cardiaco accelerava, si diresse di colpo verso la doppia porta mastodontica dell'armeria. Era chiusa, bloccata. Provò a tirare fuori lo stilo dalla tasca della divisa, ma quest'ultimo le scivolo dalle mani, finendo inesorabilmente nell'ondata di melma viscosa che si avvicinava sempre di più. L'armeria ne era quasi completamente ricoperta, quando stava per toccare la punta dei suoi piedini piccoli. L'urlo della bambina si propagò in tutto l'Istituto, seguito a breve da un trambusto indescrivibile. Uno ad uno gli scaffali dell'armeria scoppiarono in un boato, come se piccole cariche esplosive fossero state piantate in ogni angolo della stanza. Schizzi della melma le imbrattarono ogni centimetro del corpo, finché a scoppiare furono anche le finestre e le grandi vetrine contenenti le migliori divise in circolazione. E poi, com'era arrivata, la melma oscura dalla quale Tris giura di aver visto emergere artigli e teste stilizzate svanì, lasciandola completamente terrorizzata accanto alla porta.
    La serratura si aprì con uno scatto poco dopo. Ezekiel entrò nell'ambiente ormai distrutto, ritrovandosi una piccola Beatrice terrorizzata, eretta di fronte alla porta come una statua di ghiaccio. Non ricorda molto del dopo. Svenne quasi subito e l'unica cosa che le è rimasta ben impressa in mente è la voce di quel tenero diciottenne che cercava di portarla in salvo. "Va tutto bene. Ora sei al sicuro, campionessa!" Ma Tris non era mai stata in pericolo. Non aveva nemmeno un graffio.

    “In sostanza sì, se ti va puoi anche chiamarmi papà.” L'urto tra le loro spalle la riportò alla realtà. Molto tempo era passato da quel pomeriggio; dopo quasi sei anni era tuttavia vivido nella mente di Beatrice, che continuava a chiedersi cosa avesse visto nella melma in realtà. Perché lei, e perché in quel momento? Da una parte, si era convinta che in realtà tutto ciò era un'invenzione della sua mente, che in realtà era solo una bambina che si era raccontata l'accaduto in modo diverso per sentirsi una specie di sopravvissuta. Eppure, da quando suo padre era stato rinchiuso, quel ricordo le era tornato ben più spesso nella mente, assieme a tutti quegli altri incidenti degli ultimi anni. Qualcosa le diceva che qualunque cosa il Consiglio stesse facendo a suo padre, aveva a che fare con quella sera. Cercò di comprendere la battuta del ragazzo, ma a dire il vero era troppo tormentata da quei ricordi, da quella notte, per cercare di rispondere eloquentemente. Gli rispose quindi con uno sguardo confuso, schiudendo leggermente le labbra senza sapere cosa dire. “Ehi, guarda che nonostante le apparenze ti assicuro che so essere molto divertente!” Gli afferrò il braccio stringendone le dita affusolate attorno con una convinzione che non pensava nemmeno di avere ancora. « Non voglio tornare all'Istituto. Io non posso. E se la tua memoria non sta già perdendo colpi, nemmeno tu dovresti volerlo. » Gli occhi scuri si piantarono in quelli di lui, cercando di trovare la forza per fargli capire a cosa si stesse riferendo. Inclinò appena la testa di lato, mostrandogli un'espressione apprensiva. « Credi che ho provato piacere nell'andarmene, nel convivere tutti i giorni con gruppetti di cheerleader e fan di realty show scadenti? All'Istituto ci sono persone a cui tengo. Non posso rischiare di... » far loro del male, avrebbe voluto dire, ma non sapeva quanto fosse saggio dirlo a voce alta. Scosse la testa sospirando pesantemente, mentre abbassava lo sguardo, finalmente un po' cosciente di quanto in realtà fosse difficile sostenere lo sguardo del ragazzo. E allora sorrise amaramente. « Pensavo fossero le fate a parlare per metafore. Vedi, mia zia è già stata convocata ad Alicante una volta ed è tornata a casa il giorno stesso. Evidentemente se siamo stati scaraventati in casa di sconosciuti, questa nuova convocazione è diversa. E cosa mi dice che la mia non è altro che una convocazione? » Stava iniziando ad alterarsi, Tris; durante le ultime settimane non avevano fatto altro che darle indicazioni, porle domande scomode, chiederle anche cose molto personali e imbarazzanti di ogni tipo. Sembrava stessero scovando molto affondo nella sua vita, o forse indirettamente nella vita del padre e della matrigna. Si accorse di avere ancora le dita aggrovigliate attorno al braccio di lui. Glielo girò quindi di scatto e tirò fuori dalla tasca della tracolla lo stilo. Lo fissò per un attimo; gli occhi consapevoli, di chi sapeva cosa stava facendo. Tris aveva bisogno di fidarsi, ne aveva bisogno come l'aria da respirare. « Così nessuno dei due potrà fare passi falsi senza che l'altro se ne accorga. » Disse mentre disegnava la runa della Fiducia sul braccio del ragazzo, per poi fare altrettanto sul suo braccio poco sopra la runa angelica. La runa creava un vincolo temporaneo tra i due, così Tris avrebbe sentito se Ezekiel avesse fatto passi falsi nei suoi confronti. Era tuttavia una lama a doppio taglio, poiché anche lui avrebbe sentito semmai lei avesse intenzione di darsela alle gambe o se gli avesse mentito. Avvertì un profondo bruciore sulla pelle non appena si sfiorò il braccio con lo stilo. Non usava le rune da sin troppo tempo, per esserne abituata; tuttavia, non appena il vincolo venne creato dalle due rune, sentì una sensazione di liberazione, come se stesse perfettamente a suo agio con il ragazzo. A quel punto si alzò dalla panchina, diede un morso al suo ghiacciolo e si passò la tracolla attorno alla spalla, facendogli un cenno con la testa di seguirla. Non se la sentiva di stare ferma. Aveva bisogno di camminare, di sciogliere tutta quella tensione, di capire cosa in realtà stesse accadendo. « Insomma, immagino di non avere scelta vero? Quando il Consiglio ordina, i Nephilim rispondono. Immagino funzioni così. Dovrai perdonare la mia irriverenza, ma non è giusto. Hanno rinchiuso mio padre, la madre di Lewis e ora mia zia e nessuno vuole darmi una spiegazione. Sono venuti per settimane a casa di mia zia; per l'Angelo! mi hanno chiesto addirittura se sono mai rimasta incinta, quanti ragazzi ho avuto, mi hanno chiesto di raccontare loro cosa ho fatto in ogni posto in cui sono stata negli ultimi cinque anni. Non riesco a capire che cosa abbia a che fare con mio padre, ma soprattutto cosa ha fatto di così orribile? Provo a immaginarmi ogni scenario possibile, tutte le sere, ma non riesco a fare a meno di pensare che sia tutto ingiusto. Lui è buono... come membro del Praetor è sempre stato pronto ad aiutare i Nascosti. Lui ha sempre fatto il suo dovere. E voi... loro... me lo hanno portato via. » Si strinse nelle spalle camminando a testa bassa, cercando di mantenere un tono di voce piatta, nonostante le emozioni tentassero di prendere il sopravvento. « Io... io so di essere nell'occhio del ciclone. Non so perché, ma me lo sento. Eppure non voglio che Lewis viva la mia stessa vita - sempre scaraventato da un posto all'altro, sempre in partenza con la valigia sulla porta - per colpa della sua famiglia. Quindi non fraintendermi quando ti dico che tutto questo non mi va affatto bene. Abbiamo vissuto una vita mondana negli ultimi anni. Quale interesse potrebbe mai avere il Consiglio nel riportarci all'Istituto? Io credo... credo che nessuno di noi due sia tagliato per quella vita. »Ma ciò che Tris continuava a ignorare era che lei doveva non essere tagliata per quella vita, perché qualcun altro aveva altri piani.
     
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    Lo sguardo che rivolse al ghiacciolo alla fragola che Beatrice aveva insistito per fargli prendere era uno sguardo seriamente divertito, quasi spensierato, come se quello fosse molto più che un semplice ghiacciolo. Guardarlo, mangiarlo, sentirne il profumo dolciastro, tutto gli riportava alla memoria i ricordi della sua infanzia a Idris, del modo in cui si era occupato dei fratelli e di quanto erano stati duri i primi allenamenti. Ogni volta che qualcosa andava storto sapeva di poter correre fino in fondo alla strada che da casa sua portava alla piazza principale di Alicante, entrare dal gelataio più buono della città e comprare un bel ghiacciolo alla fragola da gustare su una panchina del parco. Da piccolo era la sua sicurezza, il porto in cui rifugiarsi quando i genitori lo sgridavano o quando l'addestramento si faceva così intenso da non lasciargli tempo per giocare come ogni bambino normale. Si metteva tutto imbronciato con le gambe incrociate su una panchina o su un’altalena, gustando il suo ghiacciolo e sognando il giorno in cui sarebbe diventato grande e avrebbe avuto tutto il tempo del mondo per giocare. Era quasi tenera la sua ingenuità nel credere che con il passare degli anni non avrebbe mai perso la voglia di giocare a nascondino con gli amici o di strafogarsi di caramelle senza sentire le ramanzine dei suoi genitori. All’epoca era convinto che non sarebbe mai cresciuto, che le cose che gli piacevano allora gli sarebbero sempre piaciute e che non le avrebbe mai reputate stupide o inutili come invece le vedeva la maggior parte degli adulti. Insomma: in quale altro modo potevano anche solo pensare di passare il loro tempo libero? Perché credevano che leggere un libro o vedere un film fosse più divertente che completare con pazienza un album di figurine? Questi erano i pensieri che di solito affollavano la sua mente durante quei pochi momenti che aveva a disposizione per se stesso e solitamente, quando tornava a casa, ad aspettarlo non c’era mai un nuovo pacchetto di figurine o un altro ghiacciolo, ma sempre le sgridate dei suoi genitori che erano rimasti tutto il tempo a preoccuparsi su dove fosse. Ezekiel, dal canto suo, ogni volta si inventava una storia diversa, il tutto perché non voleva che il suo posto magico venisse in qualche modo contaminato. D’altronde sapeva benissimo che se avesse comunicato la meta delle sue scappatelle, quello sarebbe automaticamente stato il primo posto in cui i genitori lo sarebbero andato a cercare la volta successiva e lui, per quanto fosse ancora molto ingenuo, di certo non era stupido.
    Amava quel luogo per un motivo ben preciso: perché era l’unico posto in tutta Alicante in cui era possibile vedere le fate. E per fate non intendeva quelle più comuni, quelle dalla forma prettamente umana, ma piuttosto quelle più piccole, poco più grandi di una lucciola, che facevano le loro case tra le fronte di grandi alberi e svolazzavano tutto intorno alla chioma verde illuminandola di mille luci e colori. Adorava quello spettacolo e nonostante andasse lì ogni volta che si sentiva giù, mai e poi mai si era stancato di assistere ancora una volta a bocca aperta a ciò che di più bello riteneva ci fosse al mondo. Al suo occhio le grandi torri di vetro di Alicante non erano nulla al confronto. Tutto sembrava sminuirsi se paragonato a quello spettacolo di cui quasi nessuno sembrava accorgersi. E probabilmente a Ezekiel piaceva anche per questo: perché nessuno gli dava l’attenzione che meritava e così poteva tenersi tutta quella bellezza per se stesso. Infatti non aveva mai portato lì i suoi amici o i suoi fratelli o tanto meno i suoi genitori e il suo maestro: custodiva dentro di sé quel segreto come se fosse un qualcosa di enorme importanza, come se stesse cercando di preservare la purezza di quel luogo che per lui equivaleva praticamente a un santuario. In fondo era il tempio dei suoi sogni, delle sue speranze, delle sue aspettative, di tutto ciò che in fondo lo rendeva ancora un bambino.
    Mentre Beatrice parlava, non poteva fare a meno di rivedersi un po’ in lei, di ricordarsi che cosa volesse dire non essere mai messo al corrente di nulla, vivere nel dubbio, lontano dai propri genitori, lasciato a crescere da solo senza l’appoggio della propria famiglia. Ricordava bene quanto era stato duro il primo anno a Berlino: quasi ogni notte aveva soffocato le lacrime nel cuscino, reprimendo i singhiozzi come se anche nella solitudine della sua camera fossero un qualcosa di cui vergognarsi. Era un pensiero stupido, ma una parte di lui voleva convincersi che i suoi genitori in realtà non lo volessero, anche se sapeva benissimo che tutto ciò che facevano era esclusivamente per il suo bene, per garantirgli la migliore delle istruzioni possibili. Eppure qualsiasi bambino, al suo posto, avrebbe fatto gli stessi identici pensieri catastrofisti che all’epoca passarono anche per la sua mente. La differenza tra lui e Beatrice, però, era che almeno lui era certo che la sua famiglia stesse bene, fosse al sicuro nella propria casa a svolgere il proprio lavoro e questo, forse, per quanto agli occhi della ragazza sarebbe stata una sicurezza, per Ezekiel all’epoca era ciò che più gli dava fastidio. Proprio il fatto che i genitori stessero bene senza di lui era un qualcosa di estremamente doloroso, mentre per Tris il problema stava nel non avere la più pallida idea di cosa stesse succedendo a sua padre e del perché.
    “Quindi non fraintendermi quando ti dico che tutto questo non mi va affatto bene. Abbiamo vissuto una vita mondana negli ultimi anni. Quale interesse potrebbe mai avere il Consiglio nel riportarci all'Istituto? Io credo... credo che nessuno di noi due sia tagliato per quella vita.”
    Ezekiel aveva impiegato lo stesso tempo che la ragazza ci aveva messo a fare quell’eloquente discorsetto per finire il suo delizioso ghiacciolo. Così fu proprio nel momento in cui si allungò verso un secchio per buttare il bastoncino che si concesse anche un pesante sospiro. Capiva il suo punto di vista, ma sapeva anche che tutti i gelati del mondo non sarebbero bastati a tirarle su il morale. L’unico modo per tranquillizzarla sarebbe stato dirle esattamente cosa stava succedendo alla sua famiglia, ma lui ne sapeva forse poco più di lei: infatti il signor Lightwood non era ancora arrivato a un’età tanto avanzata da mostrare sintomi di demenza senile, dunque non gli aveva rivelato più dello stretto necessario ed Ezekiel, sapendo come funzionava il sistema, non aveva fatto ulteriori domande a riguardo.
    “Credimi, se sapessi qualcosa a questo punto te lo direi, ma purtroppo ne so più o meno quanto ne sai tu. Il mio unico compito è fare in modo che tu e tuo fratello stiate al sicuro, niente di più. E lo so che non è facile pensare positivo in una situazione come la tua, ma più ti arrovellerai il cervello alla ricerca di una risposta alle tue domande e più finirai per darti la zappa sui piedi da sola.”
    Dicendolo si strinse nelle spalle e la guardò negli occhi con fare di scusa, cercando di trasmetterle la frustrazione che provava nel non poterla realmente aiutare in alcun modo. Sapeva che non sarebbe stato in grado di tirarle su il morale, ma sapeva anche che se lei non avesse fatto un piccolo sforzo sarebbero finiti per ostacolarsi a vicenda irrimediabilmente. Fu così che optò per fare la stessa identica cosa che avrebbe fatto lui se si fosse trovato al suo posto.
    “Vieni. Ti porto a vedere una cosa bellissima.”
    E dicendolo le concesse un largo sorriso, posandole una mano sulla spalla e accelerando il passo.
    E’ cosa nota che in ogni grande città che si rispetti ci sia almeno un luogo in cui le piccole fate che Ezekiel ricordava da quando era piccolo costruivano la propria casa. Era forse quello il motivo per cui il maggiore degli Herondale era riuscito a tirare avanti fino a quel punto senza perdere totalmente il contatto con le sue origini: perché sapeva che per quanto spesso il mondo si decidesse a chiudersi in se stesso sopra le sue spalle, ci sarebbe sempre stato quell’unico posto in cui sarebbe riuscito a sentirsi a casa, a recuperare quel briciolo di buon umore che molte volte gli veniva strappato via.
    Camminarono a lungo all’interno del parco prima di arrivare ad uno dei margini più isolati di tutto Central Park, lì dove poche persone avevano mai voglia di arrivare: si trattava di una piccola collinetta poco lontana dal sentiero già tracciato. Lì capeggiava un’enorme quercia dal tronco grosso parecchi centimetri, all’interno del quale erano incavate le minuscole dimore delle fate. Piccoli esserini fatati di ogni colore danzavano in volo attorno all’albero, sfrecciando tra le sue fronde e volteggiando nel cono d’aria circostante senza mai allontanarsi molto dalla dimora. Era tanto bello quanto era anche ad Alicante, nascosto a coloro che non possedevano la Vista, ma non per questo meno stupefacente. Era uno spettacolo di colori e luci che Ezekiel aveva sempre tenuto per se stesso, ma che in quel momento gli sembrava giusto condividere con Beatrice.
    Sporse una mano, volgendo il palmo verso l’alto mentre una piccola fata vi si posava sopra, strofinando pigramente le ali sulla sua pelle fino a fargli il solletico. A quel punto prese la mano della ragazza e la mise nella stessa posizione della sua, avvicinando la propria e inclinandola appena per fare in modo che la piccola fata scivolasse nel suo palmo.
    “Se non ti rallegra questo tanto vale andare dritti in un covo di vampiri e offrirsi spontaneamente per cena.”
     
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    “Vieni. Ti porto a vedere una cosa bellissima.” Venne presa alla sprovvista, Tris. Desiderava vedere Lewis, rassicurarlo, dirgli che tutto sarebbe andato bene e che lui sarebbe tornato dai suoi genitori. Sapeva che per il bambino, i due erano ancora un punto di riferimento senza i quali si sentiva leggermente spaesato. Nonostante la ragazza avesse fatto di tutto per metterlo a suo agio, per dimostrargli che in realtà era al sicuro e che non aveva nulla da temere, la verità era che quel elfo bramava la compagnia di sua madre, delle sue storie della buonanotte. Tris non era una madre; nemmeno tutta l'esperienza del mondo poteva prepararla all'idea di dover sostituire le figure di riferimento del bambino. Per quanto ci avesse provato, era impossibile dargli le stesse sicurezze che Valerius gli aveva dato così allungo. In fin dei conti poi, bisognava ammettere che l'ormai diciassettenne Morgenstern, poco ricordava del calore famigliare. Cresciuta perennemente lontana dalla sua famiglia, cresciuta tra estranei, cresciuta nella diffidenza e nell'incertezza, si era conquistata un'indipendenza interiore ben oltre l'immaginabile. Nonostante fosse piccola e indifesa e sembrasse così perennemente vulnerabile, la verità era che Tris si era fatta le ossa e che in un qual modo era invidiosa del fratello, ma anche dispiaciuta per lui e per il modo brusco in cui la sua vita aveva preso una piega molto simile a quella della sorella. Non era giusto; lui più di tutti, un innocente bambino, uno spirito libero dall'inimmaginabile intelletto, si meritava un destino un po' meno cruente di quello della sorella. A volte si sentiva addosso come un tumultuo di acqua che la spingeva sempre di più verso il basso, un peso sul petto che continuava a obbligarla a scendere sempre di più negli abissi. La sovrabbondanza di beni materiali, è proprio vero, non serve a niente se non accompagnata da un ottima guida fatta di carne ed ossa, cosa che Beatrice non aveva mai avuto in tutta una vita. E così, qualunque cosa facesse, a qualunque persona si rapportasse, aveva l'impressione fosse sbagliato, come se il rischio di perdere, il rischio di sbagliare fosse troppo per lei. In tutta una vita, Beatrice non aveva mai rischiato; sembrava molto più facile rimanere nei suoi soliti schemi, fidarsi delle stesse persone, fare le cose sempre allo stesso modo. Persino ora che Lewis era una sua responsabilità, cercava di fare le cose come ricordava che suo padre le faceva con lui. Ma non era la stessa cosa; eppure nel profondo, molto nel profondo, la ragazza sapeva di non fidarsi di se stessa piuttosto che degli altri. Eppure, la runa della fiducia, l'idea che fosse una cosa giusta, l'aiutò a lasciarsi condurre dal ragazzo ovunque questa meraviglia si trovasse. E non ebbe dubbi sulla sua buona fede nemmeno per un istante, come se quel tumultuo d'acqua che l'assaliva ogni qual volta dovesse fare qualcosa di diverso non fosse mai esistito. Si sentiva a proprio agio, addirittura al sicuro, protetta; è proprio vero che le rune sono in grado di fare miracoli.
    Dopo una lunga passeggiata all'interno del parco, tempo in cui Tris non si sbilanciò troppo in chiacchiere inutili, provando a rimanere a debita distanza, mostrandosi piuttosto fredda e impassibile, dinanzi ai suoi occhi si distese una mirifica immagine strappata dai migliori libri di favole. Nonostante fosse giorno, quelle lucciole multicolore ballavano indisturbate attorno a un'antica quercia imponente, rimasta lì in disparte, proprio sotto gli occhi di tutti. Fate, piccole fate, pensò quasi istantaneamente la ragazza. Non ne vedeva di così piccole sin da quanto aveva visto Idris per l'ultima volta, molti anni addietro, prima ancora della nascita di Lewis. Vederne così tante, radunate sotto il comode tetto della quercia, strappò all'istante un sorriso sincero alla ragazza, che senza indugiare oltre, si precipitò all'ombra della quercia, guardando meravigliata lo spettacolo dei piccoli esserini. « Non pensavo ce ne fossero a New York! » “Se non ti rallegra questo tanto vale andare dritti in un covo di vampiri e offrirsi spontaneamente per cena.”Asserì senza dare un vero peso alle parole, tropo incantata dallo spettacolo delle piccole, bellissime creature. Mentre lo sguardo di lei si spingeva sempre più in alto tra i rami dell'albero, sentì un contatto estraneo contro la sua mano. Ezekiel le aveva appena preso la mano, obbligandola a ritirarla d'istinto per un istante. Guardando tuttavia nel palmo del ragazzo, vide una di quelle meraviglie, color verde speranza, che si strofinava amorevolmente contro la sua pelle. Un istante e la fatina finì nelle sue mani, obbligandola a guarda con curiosità e un po' di buffo sospetto. Lei da canto suo, le toccò delicatamente il naso, non appena il palmo fu vicino al viso di lei. Rise di gusto, e continuò a fissare la fatina, aspettandosi una nuova quanto insolita dimostrazione di affetto? fastidio? e chi lo sa. « Sei davvero bellissima sai? Vorrei essere come te. Abbastanza piccola da potermi nascondere ovunque eppure abbastanza bella da potermi nascondere sotto gli occhi di tutti. » In quel momento, forse capendola, la fatina si alzo sulle sue piccole gambine e incrociò le braccia al petto minacciosamente. Poi svanì nel nulla tra i rami. Tris rimase lì, pensierosa, scoraggiata ancora una volta dalla pessima situazione in cui si trovava. Per quanto avesse provato a stare meglio, a dimenticare, anche solo per un momento, c'era qualcosa che non andava per il verso giusto. E ora si sentiva anche in colpa per aver rovinato quel piccolo sforzo di Ezekiel. Probabilmente avrebbe continuato a tenere quel muso lungo se solo pochi istante dopo una moltitudine di fate non fosse scesa in picchiata verso di lei circondandola dolcemente in un'aura multicolore. Si sentì libera di ridere, libera di dimenticare dove si trovasse mentre roteava dolcemente assieme a loro. Alcune di loro si defilarono da quella danza e con delicatezza presero alcune ciocche dei suoi capelli, intrecciandole tra di loro per fissarle infine con un piccolo fiore brillane, intriso di quella loro magia al limite della realtà. Non potè fare a meno di guardare allora Ezekiel con occhi pieni di gratitudine, mentre si lasciava cullare dolcemente dalle loro carezze quasi ingiustificate. Mimò un Grazie silenzioso al ragazzo che aveva di fronte, mentre una fata le si poggiava sul mignolo, indicandole insistentemente il ragazzo. Profondamente confusa lo fissò, corrugando le sopracciglia, per poi tornare a fissare la fata che mimava con le labbra un bacio. Ad occhi sgranati, Tris arrossì violentemente e agitò la mano scacciando la fatina, che dal canto suo, profondamente offesa le tirò violentemente una ciocca di capelli. « Ahia! Pensavo fossimo amiche, ormai. » Ma la fatina le mostrò la linguaccia e scomparve nuovamente, dove Tris non avrebbe potuto vederla. Sospirò pesantemente, senza tuttavia riuscire a togliersi dalla testa quel strabiliante momento, il migliore degli ultimi mesi. Un sorriso ebete continuò a palesarsi sul suo viso allungo, quando ormai le fatine avevano smesso di badare a loro, tornando a svolazzare senza una precisa logica attorno alle loro piccole casette. « A Lewis sarebbe piaciuto. » Disse infine lasciando che un ombra di amarezza le dipingesse per un istante il viso. Eppure, il ricordo del bambino sembrò ridarle paradossalmente la forza di arrenarsi in un lungo racconto riguardo al fratellino. Cosa gli piaceva e cosa invece odiava, come era fatto; probabilmente gli raccontò più di quanto avrebbe dovuto. Seduta all'ombra della quercia accanto a Ezekiel si arrenò nel racconto di quegli ultimi anni. Gli raccontò di Parigi e di quanto in un certo senso le mancasse, coi suoi musei e le notti fresche, con i suoi artisti di strada e il suo fascino del tutto misterioso. E poi gli raccontò di quei pochi mesi nella fredda Oslo e delle settimane passate a Monaco. La parte più lunga fu dedicata all'Inghilterra, a quella Londra piovigginosa che le aveva insegnato quanto noiosa e insipida potesse essere la vita dei mondani e le loro abitudini e quanto le fosse risultato difficile all'inizio entrare nel loro ritmo. Gli raccontò di Elijah, senza tralasciarsi quel tono misto di ammirazione, rispetto, lealtà e affetto. Gli raccontò di quanto in realtà le fosse mancato negli ultimi anni e di quanto fosse terrorizzata all'idea di vivere nuovamente a contatto con lui tutti i giorni per via di eventi di un passato lontano. E infine gli parlò di quanto fosse terrorizzata all'idea di tornare ad essere una recluta. Ora, si potrebbe pensare che in realtà Tris si sia sbilanciata un po' troppo, aprendosi completamente con uno sconosciuto, ma la verità è che quella runa della Fiducia stava facendo maledettamente bene il suo lavoro.
    Quando ormai il pomeriggio si stava svanedendo lentamente all'orizzonte assieme al sole, Tris si alzò in piedi e abbracciò con intraprendenza il casco. « Forse è meglio rientrare. Mio fratello sarà terrorizzato. »

    Un peso opprimente tornò ad alloggiare nel suo cuore non appena varcarono i cancelli dell'Istituto. Era come tornare indietro di moti anni; improvvisamente si sentì di nuovo piccola e spaventata, rinchiusa in una stanza in rovina, pietrificata dalla paura. Mentre scendeva dalla moto, appoggiandone il casco distrattamente, non poté fare a meno di rivolgere lo sguardo verso la torre dell'armeria, la stessa che era stata distrutta anni prima. Ora, le finestre intatte, sembravano non aver lasciato alcun segno di quella serata da incubo. Con fare quasi istintivo, afferrò il braccio del ragazzo, avanzando nel giardino fino alla doppia porta che al divideva dall'atrio principale. « Questo è il momento in cui mi assicuri che questo non è il più grande errore della mia vita. » Sussurrò mentre le porte si aprivano lasciando loro libero il passaggio verso gli ambienti interni dell'istituto. Si sarebbe aspettata di ritrovarsi Elijah sulla soglia, pronto ad abbracciarla, dandole quel po' di fiducia per sopravvivere anche solo all'idea di vivere là dentro per le prossime settimane, forse persino di più. Si accorse solo allora di quanta pressione stesse esercitando sul braccio del ragazzo e quindi lo lasciò andare. Nel abbassare il proprio braccio osservò con non poca sorpresa che la runa che vi aveva disegnato non più di paio d'ore fa, era completamente svanita. La Fiducia. E se la Fiducia era scomparsa, perché Tris aveva continuato a parlare? Perché gli aveva raccontato di sé? Scosse la testa cercando di togliersi qualunque pensiero dalla testa, e varcò la soglia dell'istituto. Il silenzio che improvvisamente perforò le sue orecchie era a dir poco straziante, esattamente come se lo ricordava. Nonostante l'Istituto pullulasse da sempre di studenti, la maggior parte del tempo quest'ultimo risultava silenzioso, perché agli studenti, soprattutto a quelli più grandi, veniva richiesta la runa del Silenzio, almeno in certe fasce orarie. « Wow, questo posto non è cambiato di una virgola. » Le stregaluce su un lato e sull'altro del corridoio che portava ai piani superiori, Tris individuò tuttavia una piccola ombra che correndo vivacemente si trasformò ben presto in una figura fatta di carne ed ossa. Mai in tutta la vita, Tris aveva provato così tanto sollievo. Mentre Lewis urlava il suo nome buttandosi tra le sue braccia, il visino del bambino, nascosto tra i capelli della ragazza, si alzò appena per un istante, con tanto di occhioni minacciosi. « E questo chi è? » Tris poggiò a terra il bambino guardandolo con un'espressione simile al rimprovero, per poi sciogliersi tuttavia in un sorriso, cosciente che il bambino non aveva tutti i torti nel risultare sgarbato. Lo avrebbe fatto pure lei se solo avesse saputo esattamente come si facesse. « Puoi chiamarlo papà » Asserì ironicamente la ragazza alzando gli occhi al cielo. « Lew lui è Ezekiel... il mio... istruttore. Si prenderà cura di noi finché papà non tornerà a casa. » Lewis, non metterci tutti in imbarazzo.
     
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    Ezekiel, all'interno dell'Istituto, era considerato un po' come il papà di tutti, piccoli o grandi che fossero. Nonostante fosse il più giovane tra gli istruttori, era un vero e proprio punto di riferimento per la maggior parte dei bambini, soprattutto per quelli che erano stati mandati lì da chissà dove, lontani dalla propria famiglia. Quelli erano gli studenti in cui Ezekiel più si identificava perché sapeva cosa volesse dire ritrovarsi improvvisamente soli a una così tenera età, senza poter beneficiare del conforto dei genitori o della loro ala protettiva. Certo, aveva i maestri, ma non era la stessa cosa, soprattutto perché a Berlino la disciplina era molto più rigida ed era difficile portare il rapporto con il proprio istruttore oltre quei paletti di freddezza già piantati. Per questo motivo Ezekiel si era ripromesso che se mai fosse diventato lui stesso un istruttore, i suoi metodi sarebbero stati del tutto diversi e non solo avrebbe costituito una guida per i propri studenti, ma anche una rete di sicurezza alla quale aggrapparsi quando tutto il resto sembrava cedere. Dunque, se in qualche modo i ragazzini che istruiva potessero essere paragonati ai bimbi sperduti, senza ombra di dubbio lui sarebbe stato il loro Peter Pan. Beh, magari un Peter Pan leggermente più responsabile e meno capriccioso. Perché sì, per quanto gli amici di Ezekiel potessero essere gli unici a vedere ancora il suo lato più sciolto, non c'era ombra di dubbio sul fatto che lui avesse ormai messo la testa a posto da diverso tempo. Non era più solito a uscire ogni sera, non aveva più voglia di gonfiare il petto davanti alle altre Shadowhunter dell'Istituto e ormai aveva smesso di andare contro le regole semplicemente per partito preso. Da un paio di anni, piuttosto, aveva trovato molto più gratificante l'immersione nel lavoro, il coinvolgimento che ne traeva ogni qualvolta i suoi studenti riuscissero a superare le loro paure, i loro ostacoli personali. Pian piano anche lui, insieme a loro, era maturato, perché come lui aiutava quei bambini a crescere, anche quelli facevano lo stesso con lui. E così alla fine Ezekiel si era fatto strada nei cuori dei suoi studenti, guadagnando stima di giorno e giorno fino a diventare l'ufficiale surrogato di padre per chiunque fosse alla ricerca di una simile figura. La porta della sua stanza non era mai chiusa a chiave, né di giorno né di notte, segno che in qualsiasi momento sarebbe stato disponibile per chiunque ne avesse bisogno. Ogni notte si premurava di accertarsi che ogni studente all'interno dell'Istituto andasse a letto a una certa ora: per le undici dovevano essere tutti in camera propria, per mezzanotte tutte le luci dovevano essere spente e per le una...beh, se non erano addormentati di certo avevano troppa paura della sua reazione per fare qualsiasi altra cosa. Eppure non erano in pochi tra i più piccoli a bussare alla sua porta nel cuore della notte, con le guance rosse dal pianto e il naso gocciolante, perché avevano paura del temporale o del buio oppure gli mancavano semplicemente i genitori. Ezekiel non si era mai rifiutato a loro, nemmeno quando l'afa estiva di New York faceva sentire il suo peso e un undicenne abbarbicato come un koala non migliorava di certo la situazione.
    Per tutti questi motivi molti Shadowhunters nell'Istituto provavano una certa ammirazione per lui, arrivando a chiedergli perfino come facesse a farsi piacere, e soprattutto ascoltare, da bambini e ragazzini così piccoli. Ezekiel, in tutta risposta, solitamente si stringeva nelle spalle e scaricava tutte le responsabilità su un presunto talento naturale. Certo, probabilmente una percentuale di quello c'era sul serio, ma il resto era dato dal fatto che rispetto agli altri Shadowhunters, il maggiore degli Herondale era l'unico lì dentro a trattare i bambini senza giudicarli con il metro tipico dell'età adulta, ma guardandoli tenendo ben presente la propria stessa esperienza. Per questo sapeva benissimo quando ognuno di loro aveva bisogno di un abbraccio piuttosto che di una sgridata o viceversa.
    Tutto ciò serve a capire per quale motivo non si scompose di una virgola nel trovarsi davanti, una volta tornato con Beatrice all'Istituto, un bambino di otto anni, lo stesso di cui fino a poco prima gli erano stati raccontati vita, morte e miracoli dalla Morgenstern al suo fianco. Non si buttò giù nemmeno di fronte al modo di fissare minaccioso del piccolo, che con gli occhi inquisitori e la punta del naso rivolta spropositatamente in alto pur di sostenere il suo sguardo, non distoglieva l'attenzione da lui per nulla al mondo.
    "E questo chi è?" fu tutto ciò che chiese, senza sforzarsi di nascondere la nota di palese disapprovazione nella sua voce, come se volesse mettere in chiaro fin dal principio che a lui, Ezekiel non stava per nulla simpatico.
    "Puoi chiamarlo papà. Lew lui è Ezekiel... il mio... istruttore. Si prenderà cura di noi finché papà non tornerà a casa."
    Per qualche motivo, il fatto che Beatrice avesse citato la frase scherzosa che lui stesso le aveva rivolto prima, gli fece pensare di essere in qualche modo riuscito a catturare almeno in parte la simpatia e il favore della ragazza, cosa che di certo avrebbe reso il suo compito di gran lunga più facile, portando anche lei a riceverne dei benefici. Per questo spostò velocemente lo sguardo dal bambino fino a lei, rivolgendole un sorriso complice per poi tornare serio e rivolgersi di nuovo all'ometto di fronte a lui.
    "Piacere, Ezekiel Herondale." disse nel più autorevole dei modi, avanzando una mano per stringere quella di Lewis come se stesse salutando un rispettabilissimo collega.
    "So che in questi primi tempi sarà difficile abituarsi alla vita qui all'Istituto, ma la missione parla chiaro: ho bisogno che tu, Lewis, sia abbastanza coraggioso da stringere i denti, aggrappare le redini della famiglia e prenderti cura di tua sorella. Ora sei tu l'uomo di casa: contiamo tutti su di te. Credi di potercela fare?"
    Il modo in cui lo disse era impeccabile, non tradiva nemmeno un po' l'ironia che in quel momento sarebbe saltata agli occhi di chiunque. Ezekiel era chiaramente nato per essere un attore formidabile: il suo sguardo era duro e sicuro, la fronte aggrottata e la voce seria di un generale che ordina un importante attacco. E una volta finito di parlare sporse di nuovo la mano verso Lewis come a suggellare l'accordo.
    "Mmh..sì. D'accordo!"
    "Perfetto, Capitano." e detto ciò si voltò verso Beatrice, questa volta rivolgendosi direttamente a lei "Bene. D'ora in poi sarà lui in carica: quindi dovrai dare retta a me e a Lewis, ma soprattutto a Lewis. Siamo intesi?"
    Solo a quel punto, dopo averle rivolto quella domanda per cercare conferma, la sua espressione tradì un lievissimo sorriso che cominciava ad affiorare sulle sue labbra fino a contagiargli lo sguardo ceruleo, il quale non accennava a distogliersi da quello più scuro di lei. Era sicuro come l'oro che Ezekiel, in quel momento, si stesse divertendo terribilmente.
    Probabilmente avrebbe continuato quel gioco se solo il suono del suo cellulare non avesse deciso di interrompere provvidenzialmente lo scambio di sguardi a cui aveva appena dato inizio. Come se nulla fosse distolse gli occhi da quelli della ragazza ed estrasse il telefono dalla tasca della giacca di pelle, fissando lo schermo per leggere il nome della persona che gli aveva fatto quegli unici due squilli: Deborah. Deborah era una fata con cui Ezekiel aveva cominciato a frequentarsi da circa due o tre settimane: non stava male in sua compagnia, forse perché era schietta e acuta come quasi ogni fata, ma di certo non aveva mai pensato al loro come a un legame profondo - escludendo il punto di vista fisico, si intende. Tuttavia nel corso del pomeriggio si era completamente dimenticato che di lì a dieci minuti sarebbe dovuto passare a prenderla sotto casa per portarla a cena. Ormai era ovvio che con il traffico dell'ora di cena non sarebbe riuscito ad essere puntuale nemmeno con l'aiuto di Raziel stesso. Così digitò un messaggio veloce per comunicare alla fata che avrebbe tardato di qualche minuto, per poi infilare nuovamente il cellulare in tasca e rivolgersi ai suoi due interlocutori.
    "Scusate, era la mia ragazza: mi ero completamente dimenticato che devo passare a prenderla. Quindi.....nulla, io scappo. A dopo, ragazzi!" e dicendolo cominciò a precipitarsi verso l'ampio portone dell'ingresso, voltandosi solo un secondo per rivolgere altre poche parole alla ragazza.
    "Ah, Beatrice: Elijah dovrebbe essere qui a momenti, quindi credo ti convenga aspettarlo. Sono sicuro che sarà felicissimo di vederti."
    Nel dirlo cercò di nascondere il più possibile quella punta di malizia che affiorò naturale nella sua voce, come se fosse ovvio il motivo per cui Elijah sarebbe stato particolarmente contento di vederla. Tuttavia sperò che lei non se ne accorgesse e, in ogni caso, non si preoccupò di cogliere una sua eventuale reazione: si voltò e filò dritto oltre il portone.
     
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